lunedì 6 dicembre 2010

Poi ho sciolto le mie trecce dentro un rumore nuovo.
Forse indifferenza.
E ho bevuto silenzio livido.
Ad occhi chiusi vedo il cuore battersi addosso.
Come se non fosse mio.
E non è tormento.
Il tempo scorre sempre uguale.
Ma non è vero.
E il dolore lo scompone.
E lo spalma in inerarrabili pause.
Io non la voglio l'attesa.
E mordo l'istante.
E affondo dentro.
Senza rabbia.
Disegno pensieri con le dita.
E ci soffio dentro.
Niente più astrazione.
La penna è sul tavolo. La lampada si riscalda nella sua stessa luce. Fuori il vento piega un tronco e gli ruba le foglie. Il pane non profuma più. Il mio the verde è sempre più giallo. L'orlo della gonna è scucito. Il mio rimmel mi macchia gli occhi. Ma non ho pianto. Ma non ci giurerei.
Ma che importa?
La vera vita è quella nella testa.
E il mondo fuori gira e gira e gira.
Non sarà il mio tacco ad infilzarlo per costringerlo ad un mezzo giro di valzer.
Ad una genuflessione.
O ad una preghiera sincera.
La misura della sincerità è la astrazione
imperfetta che consumiamo
nella nostra gola.
Mentre deglutiamo pentimento.
Assolutamente astratto.
Solo il peccato sa essere concreto.
E tu la conosci la mia perversa dolcezza.
Indecente come una calza smagliata.
Una riga che poi non lascia segni.
Nè traccia confini.
Nè margini.
Sì.
Oggi sono smarginata.
Come un succo di arancia rovesciato sul vassoio.
Mai negare l'ultimo desiderio ad un condannato.

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