sabato 28 febbraio 2009

La notte flette le sue ali. Come una farfalla cieca. E pazza. Procede a tentativi. E segue. Tra urti. E spigoli. Della coscienza. A caccia di sogni. Da mescolare al tempo. Ed al suo senso. Una rete. Per non precipitare. E plana su istanti. Li tinge. E i voli e il tempo si rivoltano in giorni. E anche i tentativi. Come sfoglia sotto il mattarello. E' tutto da riempire. Ma prima bisogna renderlo sottile. Quasi perfetto. Una pelle al contario. Il battito è dall'altra parte. Oltre il confine. Come un progioniero di guerra. Si è perso. Al fronte. E vaga. Prima o poi tornerà al suo posto. Tutto rende lieve ed impercettibile la muta. E non ti accorgi di aver indossato ancora una nuova pelle. Illudendoti così di non essere nuda. Trasparente come il vetro. Scheggiata ed opaca la superficie. E di essere artefice. Confusa tra la mano che spala aria. Lisciandola come neve vergine. E l'aria spostata dalla mano che rimbalza. E non è confusa. Ma solo rassegnata. Quasi felice. Di una felicità innocente. Dimentica del se e del perchè. Ma le impronte restano sempre.E tocca ricominciare. Anche se sei la stessa. Sempre e ancora la stessa. In attesa del battito. Del suo ritorno. E non servono ami.
Nella grotta del cuore.
Raccolgo briciole.
E le depongo nella scatola della fame.
Unta di bisogno.
Le mangerò dopo.
Una per una.
Adesso voglio provare a resistere.
Ancora un pò.
Contraendo il limite.
Fino a sentirlo dimenarsi nell'impossibile.
E io con lui.
Un prestito al gioco dell'assurdo.
Poi tornerò indietro.
Almeno credo.
Pesa come un macigno la voglia di leggerezza.
Ma forse sto mentendo.
A volte capita.

giovedì 26 febbraio 2009

Dove sono?
Piccoli spasmi mi pungolano il cuore.
Impercettibili.
Li fermo.
Le dita nella corteccia.
A caccia del respiro di un albero.
Per poterlo raccontare.
O forse per soffocarlo.
E nutrirmi del suo sangue.
Che è anche mio.
Dove sono?
Plasmano il respiro.
Come argilla.
O come fango.
Spasmi grondano di solitudine.
Spalmata qua.
Sul mio collo.
A volte lo stritolano.
Altre lo baciano.
Come polline nel vento.
Li chiamo battiti.
E poi vita.
Sta soffiando il vento che si chiama vita.
E a volte voglia di vivere.
Ma non è il nome giusto.
Dove sono?
Una strada non è fatta solo di pietra.
O di mattoni incastrati.
Una strada è vita mescolata.
Ed il suo ingorgo purulento.
Esplode nel silenzio di chi non ha voce.
E' nido.
E culla.
E' rifugio di passi strisciati.
E di fughe.
Del loro attrito di volo d'angeli.
In caduta libera.
Di decisioni accortocciate.
Come grattini usati.
Alcova di gatti innamorati.
O solo avidamente supplici.
Posseduti da un demone sconosciuto.
Destinato a farne brandelli di ricordi.
E' banchetto di fame e di dignità.
Dove sono?
Conto le parole.
Ed i miei pezzi.
Ma perdo il conto.
E ricomincio.
Ne manca sempre uno.
Ma non ho il coraggio di ammetterlo.
Mi annuso perchè così esisto.
Ho le prove di me.
Dove sono?
E i miei respiri?
Al bordo di quella strada.
Tra l'odore del tempo.
Sa di pane, olio e foglie disperate.
E non si cancella l'odore del sale.
Invisibile come l'amore.
Dove, dove sono?
Cercarsi, a volte, è più importante che trovarsi.
Siamo fatti solitudine scomposta e ricomposta.

sabato 21 febbraio 2009

Mi vesto di sagoma e di delirio.
E di voce.
Ombra sottile dei pensieri.
Li scaglio nell'aria.
Schizzi di voce.
Lame e luce.
Fendono.
Ma i tagli non sono mai profondi.
E la mente li accoglie.
Feconda.
E mi svuoto.
Nella sagoma contemplo.
I contorni.
E il limite non è mai la pelle.
Ho smesso di cercare.
Perchè cercare significa accettare.
Il senso dell'impossibile.
Denti che sbattono.
Di brividi percorsi.
E non è freddo.
Labbra ferite.
Postille di un patto di sangue.
Oltre le regole.
Mi nascondo.
E osservo.
E mi lascio guardare.
E la mia pelle raccoglie ogni sguardo.
Le strappa da una trama.
E tesse.
Capta le variazioni
e le transluce in percezioni.
In veli.
E sensi e linee.
Di normalità piegate.
La mia voce scivola sotto il silenzio.
Come una busta sotto la porta ignota.
E lo avvolge.
La distanza adesso è impercettibile.
Quasi intollerabile.
Troppa aria.
Troppo spazio.
Mi spingo.

Come se le labbra si sfiorassero.
Intrecci di luce.
Si toccano.
Vene della stessa carne.
Si mischiano.
Ormai.
Il mio sonno è stato squarciato da un pianto. Diviso e sminuzzato. In brividi e perplessità. Forse non era il mio. Non era il mio pianto. Poi lo è diventato. Lentamente. Una pioggia di dolore. Gocce di luna. E' entrato nel mio sangue ed ha incominciato a scorrere e a pulsare. Formiche nelle vene. Come se da qualche parte ci sia un fiume fatto di lacrime e noi ne diventiamo gli inconsapevoli estuari. Piangiamo lacrime non nostre. Quel grido selvaggio, fatto di carne ed aria, mi ha rubato un tremito e si è disciolto in una miriade di gocce di sudore che mi hanno segnata. Come una rete. Pura e sconosciuta.Come l'angoscia. Poi si è avvolto intorno alle mie braccia. Un serpente. Il limite è un vento caldo tra le dita. Ti costringe a serrare i pugni. E la tua mano diviene un fiore schiuso che si nega la luce e si ritira. Deve. Nella solitudine. Negazione di essenza. Siamo soli quando manchiamo a noi stessi. Latitanza immeritata ed immeritoria. Forse non ancora nati. Mai nati. O forse già morti. Ma il confine tra l'amore ed il bisogno ed il bisogno di amore quale è?
E le nostre parole sono cucchiai.

Ma di cosa?

L'amore non si può declamare. Come lo descrivi? E' come descrivere il proprio respiro. Oggi vorrei non respirare. Non averne bisogno. Attingere da una sacca di aria. Dal cielo. Mi avvicino ai tuoi occhi. Scuri e severi. Come lastre di buio. Mi chiedi. Senza parole. E io rispondo. Senza parole. Sono stanca di soffiare mezze verità. Di denudare la verità e trasformarla in finzione. Ogni negazione è mera e triste finzione della finzione. Mi sento come un fiore con i petali bruciati dal sole. Si è fidato e si è lasciato cullare dalla luce.Rincorrendo i suoi raggi. In un gioco sconosciuto. Fidarsi è lasciarsi cullare da una luce sconosciuta e dalle sue pulsioni. Fino a sdraiare i petali nel vuoto.
Dove è l'errore?
nel mentire?
O nel credere alle menzogne?
E' il mio dove è?

"L'essere è in ciò e, oltre i limiti di ciò, è niente".
Alla fine conta l'amore

E disegno la fine.
Perchè tutto ha una fine.
E io la sento.
Fine di qualcosa che è inizio di altro.
Ogni cosa è una parentesi.
Una parentesi dell'immenso.
Sono cambiata.
E mi rigiro a fatica nella mia nuova pelle.
Una sagoma continua a popolare le vestigia del mio sogno.
A volte danza come una ninfa.
A volte si placa e si lascia cullare dalla corrente.
A volte si agita come un branco di erinni.
La bestia è sempre là.
E dall'angolo mi fissa.
Sarà là per sempre.
Finchè non l'affronterò.
E mi guardo tra le mani.
Polvere.
E qualche graffio.
E solo te.
Comunque tu.
Ci soffio sopra.
Non meriti la polvere.
I riflessi della tua anima sulle mie mani.
E sulle tempie.
Come bacini di luna.
Come carezze di stella.
E il calco della tua mano.
E solchi nella mia mente.
Come rigagnoli di nuova linfa.
Tante volte hai stretto la mia mano.
E io ho sentito quelle dita di aria
fondersi con le mie.
E darmi la forza di ritrovare la mia.
Mia meravigliosa cavallina indomita.
Forte e selvaggia.
La purezza del nostro scartavetrarci l'anima
ci ha mischiato le vite.
Siamo meravigliosi incompiuti.
Ogni vita lo è.
Siamo amiche senza la carne.
Senza il bisogno.
O forse oltre quello.
Perchè l'assoluto è saper saltare oltre il bisogno.
Il peggiore degli ostacoli.
C'è un pezzetto del mio cuore che ti appartiene,
farfalla dalle ali immense.
E' come se le nostre lacrime si siano fuse
e siano scorte in un solo fiume.
Ai piedi di un albero meraviglioso.
Un albero rosso.
Forte e saldo.
Con le foglie larghe e lucenti.
L'albero dell'amicizia.
Sei l'unica acqua che vorrei bere.
Grazie Veronica.
Il nostro viaggio prosegue.

Altrove.
Coperta di erba.



Sara dormiva. Finalmente. Aveva intrapreso un viaggio.
E poi lo aveva spezzato. Sminuzzato. Masticato.
Era rotolato ai suoi piedi. Graffiandole le ginocchia.
Tutte sbucciate. Ed era rimbalzato.
Una specie di trottola. Impazzita. Una ladra di aria.

Una strana bambina.
Stringeva anche adesso, nel sogno,
la sua stranezza, alle sue dita,
tra le sue unghie corte, masticate dai suoi dubbi,
e sognava la normalità.
Mentre si stendeva sotto la sua coperta di erba.
Con il sonno intrecciato a mughetti.
Strofinati sulle sue tempie. Per non vedere altro che quel verde.

Era tutto così inconfessabile.

E lo respingeva dentro. Tutto annidato tra ventre e viscere.
Ricami al contrario sulla sua pelle.
Una trama che nessuno poteva conoscere.

Dentro di sè cresceva una pianta.
A volte nel cuore della notte il suo odore selvaggio e crudo
le tagliava il respiro e si mescolava alle sue pupille.
E le schizzava gli occhi di quel verde incofessabile.
Un sogno verde negli occhi verdi.
Come il fondo di una bottiglia svuotata a metà
in cui si rifugiava e vi restava sospesa in attesa di un demiurgo che non arrivava mai.
Insostenibile. Lei era là. In quelle radici.
Ovunque fosse. Impedendosi di darle frutto.

Nel momento in cui avesse permesso a quel pensiero,
fatto di cipria fine fine e di spessa acqua di rose, e di latte,
di uscire da sè, avrebbe sporcato l'aria.
La avrebbe bucata e rigata.
E tutto quel candore avrebbe contaminato.
Nessuno poteva capire. Neanche la crudeltà.
Quella non ha altra logica che la sua.

Dentro di noi ci siamo solo noi.

E poi un altro pezzetto di cammino. Non era sola.
Anche se fingeva di crederci. E poi ancora ferma. Ancora sonno.
All'improvviso capiva che serviva dormire. Un sonno che la sua anima reclamava.
E si tuffava nel suo sangue. E la sua anima con lei.
E si percorreva a ritroso. Perdendosi in un sonno. Senza sogni.
Solo pochi. E a volte. Quelli sbagliati.

Provava fame. Di sè. E di parole.
Le parole da sempre erano il suo cibo preferito.
Quelle senza inchiostro. Quelle fatte di carne.
Di schegge di anima. Di cartone e di metallo.
E di chicchi di caffè. E torbida rugiada.
Da bere in un sorso. Insieme alla incapacità di provare paura.

E si prostava davanti a quelle parole. Contemplandole.
Le vedeva sgorgare dalle sua bocca.
Le colavano dagli angoli delle labbra.
Percorrendola fino a terra.
A volte rotolavano come piccoli coralli inquieti. Impazziti.
Di una collana che nessuno avrebbe composto. Nessuno poteva.

E continuava a dormire. E la pianta cresceva.
A volte sembrava che le esplodesse dentro.

Ogni tanto qualcuno entrava. Si insinuava dalle fessure.
Si sedeva. Si stravaccava dentro di lei.
Lei faceva spazio. Si faceva piccola piccola. Fino a non poterne più.
Allora spostava le pareti del suo cuore. E andava via. Da sè.
Sarebbe tornata solo dopo il vuoto.
Quando ogni giudizio aveva fatto il suo corso.
Fino alla pozza della indifferenza.
Immenso baratro. Barattolo al contrario.

Adesso ancora dorme.
E io non voglio svegliarla.
Le bacerei le palpebre.
Gliele riempirei di stelle.
Farei navigare dentro i suoi occhi tante tante stelle.
Nessuno deve scostare la sua coperta fatta di fili di erba.
Nessuno.
Non svegliatela.

Raccolgo la mia pelle e mi limito a riprendere il mio di viaggio.
Quando vorrà Sara mi raggiungerà.
Fluido di colpa

Flusso di coscienza. Non ho più scuse. Non ne cerco. Galleggio ma poi affondo. C'è una debolezza che si atteggia a forza. Schiaffeggia. Non è fragilità. Ammiro la fragilità. E' fatta di ali di cristallo. E quando la capto mi inchino. La osservo ammirata. E' fatta di ali leggiadre. Trasparenti. Si scheggiano. Si lasciano graffiare. Si riempiono di crepe. Ma la fragilità resiste. E si trasforma. Come ramo di un albero nella tempesta. Si riempirà di foglie. Ancora. La debolezza invece macchia e schizza l'aria. Inutile se la guardi davvero. Assolutamente inutile. Con i suoi cocci sparsi. Di una resa devastata e devastante. E il ramo giace per terra. Nessun frutto. La vera forza è nel silenzio che pulsa in quel tronco. E l'aggressività è la più nuda delle difese. Inutile e stolta. Rende liquida e irrespirabile l'aria e leviga ogni ruvida piega con la violenza. Quella violenza che si sedimenta dentro. Scende immediatamente. Come un sasso. E il suo impatto lacera. Ciò che difficilmente il tempo rimarginerà. Nessun ago ricucirà quegli strappi. E crea strati e stati transitori. Nessuna lacrima amalgama. E' solo un rigagnolo sterile. Non irrigherà nessun campo. Tutto resta mischiato ma distinto. E io non so da dove ripartire. Ho mentito. Mi sono vestita della mengogna più sfacciata e becera. Ho prostituito la mia lealtà. E tanti rami sono caduti ai piedi di quell'albero. Ma ho mentito per un recondito senso di onestà. E forse per un pudore che si stinge nella vergogna. E per poter custodire una parte di me. Un pezzetto che pochi possono capire. Pochi davvero vogliono. E preservarla da tutto il resto. Una scheggia impazzita di quello che sono. Quella parte è persa in qualche notte. Anch'essa persa e nascosta. Non ho donato il mio corpo. Non sapeva che farsene. Quella fetta di notte voleva la mia mente. E la mia anima. E adesso la mente è liquida come una zuppa di intuile delirio e disperazione e l'anima scomparsa. Non conosco la dolcezza. Non più. A me è negata. Non la sento più. E' già tardi. E ciò che è stato non si ripeterà. Lo sto gridando. Ma non sento la mia voce. E' scivolata via. Mi è stata strappata. Legata a corde, a lettere storte e a cinismo. Oltre le lettere c'è la verità. E a volte la menzogna.

Disegno il cielo con i miei occhi.
Disegno e cancello.
Di continuo.
Il cielo è la mia tavola.
La mia saliva il suo pianto.
Banale pioggia.
Solo quello.
Senza luce.

Casa di bambole



Nella mia casa di bambola c'è una finto camino. Senza comignolo. Illuminato da una finta fiamma. Scintilla e si riflette sulla mia finta finestra. Non si spegne mai. Gialla ma screziata di rosso e fissa e imperturbabile sfavilla. Senza scaldare. Ancorata gaiamente a dei finti ceppi. Nessun vento riuscirà ad impedire a quella finta allegra fiammella di scoppiettare.

Anche quando l'inverno sarà finito.

Nella mia casa di bambola sul finto davanzale, disegnato e perfetto, sempre pulito, colmo di rose rosse, appena sbocciate, eternamente fiorite, da casa di bambola, una ombra, una vera finta ombra, in una notte, che forse era giorno, poggiò dei veri fiori. Innocenti ed appassionati boccioli. Si protendevano nella mia vita da bambola. I miei occhi di vetro ceruleo da vera finta bambola avrebbero voluto esplodere di meraviglia alla loro vista e contrarsi e contrarre le ciglia ed arcuare le sopracciglia. Ma una bambola ha ciglia sintetiche. E sopracciglia disegnate. Assolutamente imperturbabili. Non conosce stupore. E' destinata a restare uguale a se stessa. Indifferente. Come è giusto che sia. E i suoi occhi destinati a non versare nessuna lacrima. A non riempirsi di rughe. Con la sua bocca a cuoricino imbrattata di vermiglio. Senza labbra di carne.

Una bambola non ha orecchie.
Non può sentire.
Ma per un istante ti ho sentito.
Ombra lontana.
Straniero.
E adesso la tua voce fa scempio nella mia piccola testa di plastica.



"Ti prego vera finta ombra torna per un istante e cancella ogni traccia del tuo passaggio, porta via i tuoi fiori che io non toccherò mai ed i loro petali ed il loro profumo che io non inalerò mai.
Prima che sfioriscano
."
E' così tenera da sembrare ridicola. Anzi lo è.
Ognuno di noi ha un segreto.
Ma non c'è segreto più intimo
e recondito della nostra essenza.
E' un segreto per tutti.
Anche per noi.
E' che solo vivendo ci conosciamo.
Ci perlustriamo.
Ci frequentiamo.
In quello strano viaggio che è la vita.
E non mi vergogno.
Non mi vergogno di nulla.
Sono e resto un nodo.
Respiro
Solo nel respiro siamo.
Siamo realmente liberi.
Siamo i padroni di tutti i nostri respiri.
Nell'apnea è il nostro delirio.
La nostra migliore possibilità.
Cielo e palloncini.

All'improvviso persi i colori.
Tra sassi.
Avvinghiata alle mie paure,
come ricami intorno alle mie viscere.
Li vidi colare a picco.
E il riflesso su quel lago.
Cerchi centrifughi.

I sogni non hanno peso specifico.

Come tempera sull'acqua.
Macchia su macchia.
Tra cori di rane.
Stinti i miei giorni.
Li avvolsi tra stracci. Di tristezza. Di inerte follia. Di sconsolata consapevolezza. E languide sete.
Poi, inzuppati di me, li riposi in una buca.
Scavata da abili assertori della verità. La loro.

Che rimase di me? E adesso?
Allora la bimba volò via. Con il suo palloncino.
Uno.
Tanti.
A tappezzare il cielo.
E con lei, le sue risate argentine.
Si svuotò l'aria.
Spesso cerco un rifugio occasionale tra le pieghe di parole. Come adesso. Come allora. Come seguiterò ancora a fare.
Chiedo ospitalità. Alla vita.
E nel cuore della notte. Inseguo la notte. Sublime. La inseguo anche di giorno.
E barcollo su rigurgiti di stelle.
E i sogni. Come sfoglie di cipolle. Ricoprono il nulla.
Assopiti.
Soffocati.
Solita nenia.
Annegati dalla mia nequizia.
Distillato di inquietudine.

La passione per la vita non si celebra.
Urla e sbraita.
Io.

Ad un certo punto resto io.
Senza artifici.
Senza orpelli.
Incapace di sedurre.
Mi incanto guardando una goccia
scivolare.
E vorrei essere lei per diluirmi nel nulla.
E poi forse tornare goccia.
Altra e nuova goccia.
Oscenamente io.
Senza trucchi nè inganni.
Incapace di resistere al vento.
Adoro sentirmelo intorno.
E il rispetto come un involucro vuoto.
Nel quale infilare le mani e scavare aria.
Come corazza di molliche.
E le parole sono inutili.
La verità non è nelle parole
ma nel loro suono.
E dalle orecchie alla mente quella verità
ti punge le tempie.
Ti risucchia ogni lacrima.
Nuda.
Come solo la verità può essere.
Semplice.
Come inevitabilmente è.
Le tue stelle e le tue nuvole
penzolano sotto il soffitto.
E non brillano più.
Nessun soffio.
Nessun raggio.
Hai orecchie e mani da mendicante di luce.
E di buio.
E le ritrai e ti riavvolgi.
Non possiamo condannare chi non ha i nostri stessi sogni
ma continuare ad accazezzare i nostri.

I sogni sono la sagoma della nostra verità.
Sono una corda

Si libra nell'aria.
La solca e la leviga.
Si lega e si scioglie.
E frusta.
Frusta e piaga.
La mia anima.
A volte.
Solo a volte.
Una corda che si contorce nella sua inquietudine
livida e tremula.
Assordante.
E in desiderio rosso e denso.
Rarefatto come l'aria umida di uno stagno.
Corrosa da fumi venefici.
Cullata da un coro di rane.
E in una idea pregna di purissimo peccato.
Casto e innocente come solo il vero peccato sa essere.
Quello che tinge e si cancella
e cancella e si tinge.
A volte mi sveglio nel cuore della notte.
Ribaltata dal battito del mio cuore.
Senza essere più corda.
Ma solo aria.
Percorsa e percossa.
Muta.
E lei è lì.
Ai piedi del mio letto.
Placidamente avvolta su di sè.
Come tutti i tormenti.
Aspetta e mi aspetta.


Claustro_fobia

Chiudo gli occhi e mi spalanco al troppo.
Mi frugo tra me mani.
Ho perso lo stupore.
Il fiato sospeso e gli occhi che brillano
e si tuffano in un nuovo respiro.
Nutriti ma mai sazi.
E' come se avessi bruciato tutti i respiri tremuli
che mi erano concessi.
Quelli che schizzano l'ordinario avvicendarsi delle ore
di voglia di assoluto.
E adesso vivo rubando il respiro.
Come una ladra di attimi.
E implodo nella placenta da cui sono nata.
Forse il mio cordone ombellicale non è mai stato reciso.
E mi stritola come una corda.
Sembra lontano il tempo
mi cui immergevo nella la tua sagoma
come ad una fonte di acqua limpida.
Bevevo di te.
Ignorando ogni cautela.
Senza preoccuparmi che l'acqua scendesse sempre più in fondo.
E nella mia mente si celebrava il più innocente amplesso dell'anima.
L'anima che si sporge sull'altra anima.
E non ci sono specchi.
Ai piedi di un albero.
Cullata dal rumore delle sue fronde.
Nel prato delle anime.
Ne annusa i contorni.
E li accarezza.
Con le sue mani da anima.
Con la paura di farle male.
E poi si lascia guardare.
E a sua volta ribere.
E' tutto così lontano.
O troppo vicino.

Ci sono segreti che non ho il coraggio di confessarmi.
Rinchiusi in un respiro che si è perso.
E io non riesco più a trovarlo.
Nè ho voglia

di cercarlo.
Ampolle

Ampolle.
Prigioniera.

Freddo il ferro.
Quasi punge.
Lo sento.
Prigioniera.
Del passato.
Di suoni.
Di sillabe.
Del vuoto.
Ci nuoto.
Tra catene di sibili.
Di soffi e di sospiri.
Di parole inutili.
Di inutili parole.
Anelli di fumo.
Come orbite.
Circumnavigo la tua bocca.
Con la mia lingua.
E aspiro le tue parole.
Le parole sono quello che gli altri vedono di noi.
Sono l'involucro della nostra verità.
Sono il punto in cui ci incontriamo.
E l'essenza si rivolta. Si riavvolge.
Una ampolla in cui si mescolano i pensieri.
Solo a volte la miscela è esplosiva.
Altre si diluisce.
Si stempera.
Evapora.
Quel puntino impalpabile
ma denso
in cui siamo sospesi oltre la carne.
Un suono che svuota e riempie.
Nelle nostre parole
depositiamo una parte di noi.
La esponiamo.
La copriamo.
La graffiamo.
Più o meno artatamente.
Anche il silenzio
è una serie infinita di parole.
Una scia. Lunga e sottile.
Come una linea fatta di tante
linee che si inseguono.
Senza sosta.
E' una goccia
di sangue impenitente.
E crudele.
Cade.
Scivola.
E segna.
Peccaminosi chicci di un melograno maturo.
Vorrei vivere in fondo al mare

In una apnea senza fine.
Come in un imbuto.
Fino alle viscere della terra.
In una piccola casina.
Proprio là.
In fondo al mare.
Dove è tutto
e tutto è calmo.
E tu non lo sai.
E non cerchi.
Non vuoi.
Non puoi volere.
Sola.
Come una voce monocorde.
Una saetta nella testa.
Un dardo senza aria.
Un dito sempre sullo stesso tasto.
Senza carne.
Regalando il mio respiro alle onde.
Mescolando e diluendo i miei pensieri.
Non c'è mercimonio più grave
della propria intimità.
La nudità è il prezzo
della più effimera delle illusioni.
La comprensione.
Nè santa nè puttana.
Sirena del nulla.
Di prati sommersi.
Scalzi e sterminati.
Ecco quello che sono.
Perchè il mio sangue non è nella mia carne.
Ma scorre nella mia anima.

Ancora cerco e ricerco te.
In ognuno.
Sono stata splasmata all'altare della tua crudeltà.
Sarò per sempre la sposa del nulla.
Il mio cuore giace in fondo al mare.
Ancorato a quella voce.

Nella testa.
Troppe congiunzioni e nessuna virgola

Il cielo era stato spalmato ed immerso nelle nuvole oggi.
E io sotto quel cielo. E quel cielo sopra di me.
E non solo.
Ma il vostro cielo aveva tante nuvole come il mio?
La macchina sfrecciava.
Fingevo di preoccuparmi.
Nulla mi turbava.
In realtà.
Quando sei assente nulla tocca la tua indifferenza.
Senti solo quella.
La macchina sfregava l'aria
e strofinava il ciglio della strada.
Assente.
E voci. E risposte distratte. Sguardi severi. Sorrisi.
E la velocità. Ancora più veloce.
Parole pericolosamente scostanti. Fingevo un nervosismo che non c'era.
Parole.
Lasciate al margine della strada e della decenza.
E' che avrei voluto insinuarmi in quella coperta di nuvole.
E non respirare.
Ma non mi riusciva.
Non c'è nulla di più inconsapevole del respiro.
Tenti di impedirtelo.
Ma la vita è più forte di ogni assenza.
In alcuni posti

Ci sono posti in cui provi un senso di intimità sacra.
Ti senti in una ampolla di vetro.
Protetta ma non esclusa.
Con il naso contro quel vetro.
E la intimità si forma e modella e si trasforma.
Forgiata dalla quotidianeità e dalla autenticità.
L'ultimo baluardo di noi stessi.
Ignoriamo a volte che quei luoghi sono
i contenitori involontari delle nostre vite
e delle nostre emozioni.
Raccoglitori sterili di goie e dolori.
Levigati giorno dopo giorno da noi e dallo snodarsi della nostra vita.
Scava e segna come un fiume.
Le cose e le persone.
E poi le cose.
Tutto inizia e finisce negli oggetti.
Continuano a parlarci degli altri.
Anche dopo.
Scatole aperte cesellate dai nostri attimi.
Il cui coperchio sembra essersi fortunatamente smarrito.
Usiamo per anni la stessa sedia o lo stesso letto.
E tutto questo diventa più nostro di quanto possiamo immaginare.
E' assurdo quanto sia più facile legarsi agli oggetti che alle persone.
E ci ostiniamo a immaginarci come fatti di aria
mentre grondiamo di terra
e la terra gronda di sangue.
Siamo alberi con le radici affondate in una quotidianeità
che ha bisogno di nutrimento e di linfa.
Difficile troppo difficile impedircelo. Come morire di sete.
Dei nostri rami non saprei. Loro si credono pezzi di cielo.
Mischiati e piegati dall'aria.
E spesso dimenticano di essere legati ad un tronco.
E' così strano ma oggi è successo. Un albero mi ha prestato i suoi occhi.
Non riesco a raccontarvi quello che vedono gli alberi.
Ma un pò l'ho sentito.
Quanto placa la natura.
E' che ci sono assenze che ti fanno davvero paura.
Sono ripiene di sogni svuotati e frantumati.
E schegge dentro di loro.
Il futuro è un luogo da trovare.
Oltre il muro

Oltre questo muro ci sono campi immensi.
Quelli in cui puoi sdraiare l'anima.
Lasciandola accarezzare dal vento.
Dall'odore dell'erba bagnata.
E dalla fame di una terra avida e scura.
Non puoi che rubare schizzi di verde.
Con cui striarti i giorni.
Come una miserabile ladra di colori.
Dentro cui immergerti all'insaputa di tutti.
Macchie da custodire dentro di te.
Da nascondere tra i tuoi polpastrelli.
Per strisciarci tutto quello che tocchi.
E da sniffare.
Illudendoti di avere un'ombra sola.
Se chiudo gli occhi posso sentirlo.
Quello che c'è dietro.
E non mi affaccio.
Non mi sporgo.
Perchè non serve.
L'oltre è ciò che noi decidiamo sia.
Con il segreto di una immanenza che rassicura.
Mi rivesto di precarietà.
Tira sulla pelle.
E mi sfiora gli angoli della bocca.
Ora è nelle pieghe delle mia labbra.
E un pò sconcerta.
Ma si mescola al respiro.
E al rosso di questo muro.

Oggi non voglio essere altro che quello che sono.

Occhi spalmati su un muro rosso.
Io sono strana

Non ci pensereste incontrandomi.
Io sono strana.
Ma ingoio la mia stranezza.
Ho imparato a farlo.
Per evitare lo sdegno negli occhi degli altri.
Quello che fa abortire ogni voglia di autenticità.
E la nascondo tra le mie ciglia.
La mia stranezza.
Imbrigliata tra righe di rimmel.
E strati di nuvole.
Me la strappo di dosso e me faccio un fazzoletto.
Sorrido e rassicuro.
E stringo la mano.
Con presa ferma.
Come se mi concentrassi sul mio polso.
Come se in quell'istante io fossi tutta
là in quella stretta.
Ma non è vero.
Io sono nella punta dei miei polpastrelli.
Nel mio lobo sinistro.
Nelle mie viscere.
E nell'incavo del mio ginocchio.
O nella mia caviglia fragile.
Ma a voi che può importare?
Viviamo nella sciocca convinzione di essere indispensabili per gli altri.
E' che la stranezza mi porta a implodere ed esplodere
di continuo.
Nel tentativo di lasciare una piccolissima scia e di contaminare la mia vita.
Per lasciare vedere agli altri quello che sono davvero.
Loro non lo sanno.
Per alcuni la vita è un vettore che aspira all'infinito.
Una linea spinta verso il tutto ed il nulla.
Destinata ad impattare migliaia di altre rette.
E in quei punti diventare meno veloce.
Rallentare.
Senza arrestarsi.
E poi inevitabilmente proseguire.
Arricchiata da tutti quei punti di intersezione.

So solo che sotto ogni corteccia c'è la vita di un albero che freme.
Avete mai poggiato le vostre dita là?
Dimenticando per un attimo il vostro battito
e diventando il battito di quell'albero
come se fosse l'unico battito esistente?
No?

Neanche io.
Poca luce

Oggi c'è poca luce della mia scatola.
Le sue pareti contro di me.
Le sento.
E io contro di loro.
Come il più crudele degli abbracci.
Una morsa che toglie il respiro.
Prigioniera di me stessa.
E questo buio acceca.
E divora.
Maledettamente.
Si infila nella mia quiete e la fende.
Risucchia ogni spiraglio di luce.
E non trovo più i miei occhi.
I miei occhi acerbi e affamati.
E' come se li avessi regalati alla luce.
In un tempo che non ricordo più.
In un impeto di vita.
Nel buio io cerco.
La bestia.
Mi ha fiutata.
La imploro di lasciarmi.
Di uscire dal mio cuore.
Può morderne solo un altro pezzetto.
E di ripulire tutto il resto.
Non risponde.
E mi modella.
Cesella la mia inquitudine.
Come cera densa e bollente.
Ho i suoi artigili che frugano tra i miei pensieri.

Vorrei essere
solo quella foglia che
là fuori
lontano
si trasulla nel sole e nella rugiada.
E implora al vento di riempirle gli stomi di baci.
In attesa di essere strappata.
Piccola geisha adorante ai piedi del suo unico signore.
Il tempo.

Nulla di più.
Insomnia

Logoro spartito. Di note mai suonate.
Adagiate ed imprigionate in un pentagramma inesplorato.
Come se tu fossi la sola a sentire quella musica fatta di aria e di anima.
Sibili di vento che scorrono paralleli ad un vento più forte.
Veloce. Rimbalzano per la forza di quel soffio crudele.
Sbattuti via. E riprendono la loro corsa sempre troppo lenta.
Nelle tue vene. Urtano contro i tuoi fianchi. Come dita affamate.
Barcolli. Indugiano là.

Non so. Non voglio. Non riesco. Ai margini della mia mente.
Incastrata nella voglia di una tenerezza che non sento di meritare.
O sento di non meritare.
Qui sulla nuca. E' incastrata qua.
Una coperta sotto la quale mi nascondo ma rischia di stritolarmi.
E se la scosto ho freddo. Dannatamente freddo.
Una coperta tessuta da carezze sbagliate.
Quando pensavo che i baci non sapessero di lingua.
Non fossero così liquidi.
E che per ogni amplesso ci fosse una orchestra che suonava.
Non pensavo assolutamente contasse la carne.
Che fare l'amore era scopare. Poi lo imparai.

Ed il giorno arriva sempre troppo presto.
Bruscia ogni squarcio di notte.
Zampilli di giorno spostano quella coperta.
Sono figlia del fuoco. Lo fui.
Quando ero divorata dalla voglia di conoscenza.
Aspiravo ad essere vaso colmo.
Ora è schegghiato. Uno. Tanti graffi.
Nessuna fonte potrà mai riempirlo ancora.
Del resto non ci sono più fiori da dissetare.
Allora è meglio che resti del tutto vuoto.
Guardare gli occhi della gente era davvero così facile. Come respirare.
Adesso sento. Ma non ascolto. O ascolto ma non sento.
L'indifferenza filtra. Ingoiata dal mio ego.
Sono il suo clone. Un plagio del nulla.
Alla ricerca di pezzi inconsapevolmente sparsi. Da reincastrare.
Come una statuina di porcellana a cui hanno mozzato le mani.
Dove sono le mie mani?

E' che il mio gatto è sordo e tutti si ostinano a parlargli.
Anche io.
Forse sarei meno ridicola a scrivere quello che sento davvero.
Ma oggi non è più ieri.
Parole come passi

Allora i passi erano parole.
Parole che strisciavano il selciato.
Tra la polvere che si sollevava.
Io, tu e la sabbia.
Poi rimase solo quella.
Granellini nel vento.
Rischiacciati per terra.
"Dietro l'angolo".
Lo schizzavamo nella testa.
Con le menti galvanizzate dal desiderio.
Ci intuivamo senza toccarci.
Con le dita a sfiorarsi.
La distanza è la misura dell'attesa.
L'angolo era là.
Più vicino di un respiro.
Accerchiato dalle spine di fichi d'india.
Sparso tra muretti a secco e reti.
Intrecciato ai nostri baci.
La musica lontana.
E dietro quell'angolo ci accartocciammo.
L'uno contro l'altro.
L'uno dentro l'altro.
E' tutto così effimero ed illusorio.
Alcuni istanti sono così immensi
da farti credere che stanno risucchiando il mondo.
In quell'istante ci credi quasi.

Da allora ho imparato a misurare la distanza dagli altri con le parole.
Riflessi cangianti

Incastrata in riflessi cangianti.
Come onde di vuoto.
Si infrangono e risucchiano.
Proiettano e rubano.
E riproiettano.
Mi nutro di tempo.
Affamata e mai sazia.
La lama sapiente di un abile artigiano.
Incide.
Recide.
E i miei resti in pasto al vento.
La sagoma è sempre più piccola.
Sta tremando.
E adesso sono il riflesso di quello che non c'è più.
Mischiato al vuoto.
Percepisco ombre confuse.
Senza mai capire.
La comprensione è amore.
E io non riesco a capire.
Annuso l'eco della verità.
Ha un odore nauseante.
Mi esplode nelle nari.
Sta urlando ossessa.
Altrove.
Riempie antri e caverne.
E valli.
E mi ritrovo come la scia di me stessa.
Ancora.
Con nastri di luce tra le mani.
E la paura di srotolarli.

Le mie vene pulsano.
Sono catene di sangue per la mia anima.
In un cesto

In un cesto di more e rovi ho deposto la mia pelle.
L'ho strappata.
Annusata.
Accarezzata. Graffiata e poi ricoperta di baci.
Lenita e poi striata ancora.
Adesso è ancora là.
In quel cesto.
Si agita e trema nel vento.
E io sono senza pelle.
Sotto la mia pelle scorrono prati di ombra.
Prima non lo sapevo.
Immensi ma placidamente mossi.
Asciugati.
Prosciugati.
Divorati dal futuro.
Cosparsi di margherite esangui.
Strisciano il suolo con i loro petali disperati.
Urtandosi le corolle incredule.
In attesa della pioggia.
Perchè io non ho più sangue.

Siamo tutta la sete di sogni che proviamo.
Che siamo capaci di sentire.
E ci contorce e stritola la vita.
Ci spinge a desiderare fiumi d'acqua.
Mentre basterebbe
solo
una timida
e parca

goccia.
Placenta

A volte nuoto nella tua placenta.
Ti chiedo amore.
Me lo neghi.
Sento il tuo lamento.
E' muto.
Cerco di assopararlo.
Torbida perversione.
La tenerezza.
Stordisce.
E' un veleno.
E poi quella placenta non si buca.
Io vedo il mondo attraversa di essa.
La voglia di amore è una prigione.
E' Tutto deforme e rigonfio.
E la mia inquietudine odora di morsi sulla pelle.
Oggi mi sei esploso tra le braccia.
Le hai percorse.
Intrecciando il tuo alito al mio collo.
Mentre avevo solo voglia di un urlo.
Poi un altro.
Di quelli che ti riempiono il cervello.
Lo colorano.
Tante urla che ricoprano ogni traccia voluminosa di silenzio.
Il silenzio è una macchia impregnata di delusione.
Pura.
Lo specchio

Dentro.
Contro.
Dentro e contro uno specchio.
Uno specchio antico.
Profondo come un lago.
Opaco.
Sono invisibile.
Mi cerco.
E mi cancello.
Distruggo e rimodello.
Le gote.
Il mento.
Ogni parte della fronte.
Mi spengo gli occhi.
E lascio scomparire ogni traccia della bocca.
Mi annullo e mi ricreo.
Le linee si avvicendano.
Le forme si ritraggono.
Espressioni nuove.
Segnano e colorano.
E quella immagine appare e scompare.
Dietro bolle di sapone.
Lei e l'altra si fronteggiano.
Una è la bimba.
Sputa fiori. Li raccoglie e li sputa.
Ogni sera si fa le coccole e si canta la ninna nanna.
L'altra è quella sbagliata.
Famelica. Bugiarda. Inaffidabile.
Sciorina il suo scialle di parole nel tempo.
E ammicca.
In mezzo ci sono io.
Con un cuore dislessico.
Morsicato.
Nè l'una nè l'altra.
Fatta dai loro pezzi.
Li raccolgo. I fiori dell'una. Le ciglia dell'altra.
E le allontano.
La nostra vera immagine non ci appartiene.
Nessuno specchio riesce a darcela.

E' che gli occhi sono davvero il più temibile degli specchi.
Dove gli altri ci trovano.
Dove noi troviamo gli altri.
Lo specchio più perverso e crudele.
Proietta noi e le nostre ombre.
Nonostante noi.
Se chiedo non chiedo

Ho chiesto al tempo di prestarmi un attimo.
Poi due.
E ancora.
Ho insistito.
Supplice e bugiarda.
Adesso rubo.
Rubo istanti al tempo che finge di non accorgersene.
Il più indifferente e sciatto dei custodi.
A lui non importa se rubo e dipano e rubo ancora.
E mi tesso uno scialle di istanti rubati e di nulla.
E' la mia vita.
Lui è solo il custode di quello scialle.
E quegli istanti dilatati, soffiati e gonfiati,
come enormi bolle di sapone
vibrano nell'aria,
in attesa di esplodere
e perdersi.
Come se non fossero mai esistite.
Come i miei istanti.
Aria impiastricciata,
sospesa e luccicante.
Imbottita di me.
Nessuno sa cosa cosa si agiti nelle mie bolle.
Cosa le faccia ancora volare.
La credono una innocente passione.

Dove sei?
Era estate ma l'aria aveva ancora inspiegabilmente
il sapore di arancia.
La sentivo sulle labbra.
E ovunque.
Mi ronzava nelle orecchie e mi succhiava il lobo.
Un odore intenso come tutte le ossessioni.
Mi solleticava il cuore.
Impregnava la pelle.
Mentre la mia testa ti spingeva di continuo dentro i miei antri.
Mi rivestivo e spogliavo di ostinazione.
Di finto pudore.
E mi ostinavo.
Ancora e ancora.
Una serie di volizioni contratte.
Strusciavo le parole alla carne.
Fino a farmi male.
E odoravano ancora di arancia.
Nè santa nè puttana.
Non capivo che una vagina virtuale è fatta solo di parentesi.
Graffe.
Adesso è ancora estate.
Non ho più bolle da sciorinare nel vento.
E neanche più sangue.

Ma dove sei?
Scampoli di coscienza


Lasciai scivolare la mia scatola nel vuoto.
Chiusi gli occhi e la lanciai.
Con le palpebre serrate.
Sigillo di lacrime mai piante.
E le mie mani mi sussurravano di non avere paura.
E si facevano culla per il mio cuore.
Mentre precipitava
strisciava il vuoto
che la segnava.
Con graffi.
Meravigliosi e possenti graffi di aria.
Strappava ogni piega.
Levigava le curve.
Affinchè tutto fosse uguale a tutto.
Nulla più doloroso di graffi d'aria.
Rivoli di un fiume cattivo
che sta scorrendo da qualche parte.
La crudeltà si inchina all'altare della logica.
E' la sua serva fedele.
Incede fiera.
Ma si prostra davanti alla ragione.
E diventa radici secche di un albero senza rami.
I cui frutti crescono dentro.
Senza poter nutrire mai nessuno.
Mentre frantumava l'aria
quella scatola
raccoglieva presente e futuro.
E passato.
Alla rinfusa.
Li attraversava
e li rimpieva
e poi svuotava.
E ciò che era futuro diventava inspiegabilemente passato.
E il futuro si trasformava in presente.
In un percoso
dove il tempo
è fatto di strati.
Di cornici sovrapposte.
E di scampoli di coscienza.
Come un immenso puzzle.
Siamo la fragile giuntura tra gli scampoli del tempo.
Chiudi la porta. Ho freddo.

Vado e torno.
E poi rivado.
Immancabilmente ritorno.
Cosa mi lega a cosa?
E ci sono anche se non ci sono.
E non ci sono anche se ci sono.
Spio la mia assenza.
Mi fa orrore.
Urla e mi sorride.
Ogni volta lascio quella porta aperta.
E poi mi fingo meravigliata.
Come se avessi dimenticato l'uscio spalancato.
E traccio il percorso con briciole.
Di margherite.
E della mia pelle.
Le strappo dal mio prato.
Come facevi tu.
E poi lascio scivolare more per terra.
Sembra sangue.
Affinchè possano credere che io stia sanguinando.
Una emoragia di inquietudine.
"Non c'è più nulla da rubare" mi ripeto.
E mi lascio violare.
Scavare.
Ancora.
E sempre.
Il dolore non è in quello che portano via.
Ma nel sentire spostare i cardini.
Nel cigolio di quella porta.
Io sono in quella porta che striscia il pavimento.
In quella soglia calpestata.
Con indifferenza e crudeltà.
Di ladri.
In quel leggerissimo attrito di cui nessuno si cura.
Quella porta si apre sul un prato di margherite
incredibilmente scalze ed affamate.
Quante lune?

Quante lune ci sono in un cielo senza stelle?
Provi a contarle.
Collanine di lune multiple e confuse tra sfumature e ansia a pezzetti.
E la notte impicca il tuo sonno.
Si insinua tra le tue palpebre,
sbarrandole ad un giorno che stenta a venire.
L'aria ti accarezza la sagoma e ti costringe a cercare calore.
E a respingerlo.
E' come se la notte afferrasse i tuoi capelli e ti spiaccicasse contro un soffitto
schizzato da riverberi di un giorno nuovo che è riluttante.
Come te.
Ti senti in debito con la vita ed il mondo.
E il rumore della notte si riempie di ruote veloci sulla strada
e ti svolta addosso respiri di altre vite.
E' tutto troppo estraneo a te stessa.
Selvaggia come una gatta.
Senza unghie.
L'insonnia è una eco lontana e distorta della consapevolezza.
Ti pieghi e ti annodi
per poterti sentire meglio.
Da qualche parte c'è un profumo sfacciato di bucato
che si sta librando
e si trastulla nella luce di qualche altro sole.
Lontano.
Quanti soli si avvicendano nella nostra distanza dalla vita?
E questo è quasi un conforto.

Hai perso la scarpetta da finta principessa da qualche parte e adesso sei scalza.
Nella notte.
E il ballo e' finito.

Forse la nostra mente è il migliore diario di noi stessi.
Confuso ma ostinatamente sincero.
E comunque assolutamente

segreto.
Petali bianchi

Vago e mi perdo.
Sento mille gocce di pioggia.
E aghi nella carne.
Pioggia come petali bianchi che invadono l'etere.
Fruscii.
Senza stelo.
Nè corolla.
E scie di chicchi di riso.
Senza odore.
Pensieri nomadi e sconnessi.
Si avvicendano in una casa senza stanze.
Nè tetto.
Percepisco il vento.
Avvolge come alito di vita.
Lontana.
E respiri contratti.
Intrecciati come canestri a rivoli di saliva.
Come linfa rubata a fiori mai nati.
Nuoto nell'aria.
Mi graffia la pelle.
Sono miserabile goccia destinata
a raschiare tanti strati d'aria
prima schiantarsi nella terra.
Scura e brulla.
Reticente.
A mischiarsi di prato.
Ho quasi paura del sole.
Quando la luce tornerà
io cesserò di essere.
Mi assenterò dalla vita.
Mi nasconderò tra l'erba
come una culla
e mi nutrirò ancora di
nuova ombra.
Perchè non ho altro che petali bianchi
e corridori lunghi e vuoti
nel mio futuro.
Provo tanta vergogna per questa voglia di dolcezza che mi stritola.
Claustro_fobia

Chiudo gli occhi e mi spalanco al troppo.
Mi frugo tra me mani.
Ho perso lo stupore.
Il fiato sospeso e gli occhi che brillano
e si tuffano in un nuovo respiro.
Nutriti ma mai sazi.
E' come se avessi bruciato tutti i respiri tremuli
che mi erano concessi.
Quelli che schizzano l'ordinario avvicendarsi delle ore
di voglia di assoluto.
E adesso vivo rubando il respiro.
Come una ladra di attimi.
E implodo nella placenta da cui sono nata.
Forse il mio cordone ombellicale non è mai stato reciso.
E mi stritola come una corda.
Sembra lontano il tempo
mi cui immergevo nella la tua sagoma
come ad una fonte di acqua limpida.
Bevevo di te.
Ignorando ogni cautela.
Senza preoccuparmi che l'acqua scendesse sempre più in fondo.
E nella mia mente si celebrava il più innocente amplesso dell'anima.
L'anima che si sporge sull'altra anima.
E non ci sono specchi.
Ai piedi di un albero.
Cullata dal rumore delle sue fronde.
Nel prato delle anime.
Ne annusa i contorni.
E li accarezza.
Con le sue mani da anima.
Con la paura di farle male.
E poi si lascia guardare.
E a sua volta ribere.
E' tutto così lontano.
O troppo vicino.

Ci sono segreti che non ho il coraggio di confessarmi.
Rinchiusi in un respiro che si è perso.
E io non riesco più a trovarlo.
Nè ho voglia

di cercarlo.
Petali e spine

Dove è casa?
In un dedalo di vie sconosciute
strette e buie
fatte di carne equivoca e
fiumi di parole
e polvere
e aria che vibra
e astinenza d'amore
e paura livida e viola
mi perdo.
Dove sono?
Ho perso gli occhi chiudendoli.
Sento una cortina di fumo denso sul cuore
e spine
e una corteccia.
Scanso tutti gli ostacoli tra me e me.
E non mi raggiungo mai.
Non riesco ad afferrare il mio cuore.
E poi non ho dita.
Sono fatte di aria.
Come la mia anima fosse una anguilla
che mi scivola via
e schizza in un altro dove.
Lontano e nascosto.
E resto senza cuore.
E senza anima.
Con una loro vaghissima intuizione.
Fungono poco e male.
Dove è casa?
Mi sento protesa su ramo
incantata da una coro di foglie
che si inebriano a sfidare il vento
su un precipizio di aria.
Abbiamo imparato a misurare
con l'assenza
e con il bisogno
i nostri sentimenti
e le nostre relazioni con gli altri.
Come se ci credessimo il centro di un mondo
in cui a volte inevitabilmente siamo costretti ad
essere periferia.
Se solo sublimassimo il vuoto
percependolo in tutte le sue
dimensioni
ci accorgeremo che è pieno
di ciò che manca.

Dove vanno a finire le stelle dopo che
hanno impresso la loro scintilla
e ci hanno invaso gli occhi?
Muoiono?
O splendono altrove?
Vi siete mai lasciati scivolare una stella
tra le labbra
fino a farla scendere
e sentirla vibrare
nella gola

e nel cuore?
Mia sorella è figlia unica



Sembra un mulinello
E' un ingorgo.
Vero e proprio.
Cerchi concentrici affondano e si affondano.
Un tripudio dell'ego.
E delle sue molteplici proiezioni.
A volte ho creduto che fosse fatto di aria ruvida
come una carezza negata
che come una falce inclemente
strappa ciuffi di erbacce
e ne stempera l'odore,
A volte di acqua che strascina e allontana.
Il caldo ed il freddo difficilmente si mescolano.
E' una battaglia. La loro.
Da un certo punto in poi.
Su una linea di mezzeria.
Dalla indefinibile consistenza.
Mi incateno all'inutile.
All'impossibile.
Una specie di apnea.
Da piccola ho imparato ad entrare subito nell'acqua.
A tuffarmi senza attendere.
Mi immergevo e restavo sotto.
Come se quell'acqua gelida fosse una coperta.
Annullando ogni brivido.
Respingendolo nel mio respiro
e restituendo all'acqua che mi scorreva contro.
E incontro.
Forse allora ho capito che le migliori tane sono nella luce.
Ci vogliono occhi di granito per vederle.




"...Segui le mie orme per un chilometro prima di giudicarmi..."
da J. C. Oates - La madre che mi manca
Voglio un veliero fatto di sale

E' da là che vengo.
La mia pelle ha il sapore del sale.
Sono una creatura che si nutre del mare.
E della sua idea.
Il mare scorre nella mia mente.
Rimbalza sulle mie tempie.
Mi riempie le vene.
Le dilata
e le fa fremere.
Voglio un veliero fatto di sale.
Che solchi il mio sangue.
Lo navighi.
Lo possieda.
Una barca fatta di sale e di vento.
Non sono fatta di vento.
Lo subisco.
Ha scavato la mia sagoma.
E adesso la ricuce.
Punto dopo punto.
E io sono la sua schiava.
Incatenata al nulla.
Vorrei che quel veliero giungesse da me
per strapparmi dalla mia culla.
Un ventre di stelle malate e deliri nudi.
Cuciti sul cuore e sulle labbra.
Per impedirmi di respirare.
Fatta di gioghi e di ombra.
Nocchiero ribelle fino alla fine di me.
Ai lembi della mia anima.
E a quelli del mio tormento.
Dilatato con i suoi schizzi infetti.
Di me resterà un cesto pieno di vuoto.
E di parole succhiate e mozzate.
Annegate in un senso di indegnità.
Rosso e denso.
Ho barato.

Altro non ho.
Come Donna
.
.
Come donna.
Rammenderò pensieri.
Fatti di fiori di ciliegio e brandelli di pelle sconosciuta.
Di nuvole e odore di fieno.
Scorsi da lacrime di inchiostro.
Pregne e dense.
Come graffiti.
Come marchio.
Su un ventre tremulo.
Tremulo e inerme.
Accarezzerò gli strappi.
E soffierò sulle ferite del tempo.
E nello specchio.
Come donna.
Ostinatamente donna.
Seguirò la sagoma dei giorni.
Di sogni di plastica. Di tulle. E ceralacca.
E quella ombra la intreccerò a sillabe e foglie di acanto.
La poggerò sul mio cuore scalzo.
Premendo più forte che posso.
Fino a farlo aderire.
Quasi oltre ogni respiro.
Lo fenderò.
Ghirlande del tempo.
Su un pavimento stancamente calpestato.
Imbrattato da orme inquiete.
E in quello specchio fui.
E' quello il confine tra oggi e domani.
Tra un istante e quello successivo.
Il riflesso è già inconsapevolmente passato.
L'immagine è impregnata da ciò che già non è più.
E come donna.
Adesso. Sì adesso.
Chiudo gli occhi.
E sento l'aria solleticarmi le palpebre.
E le mie mani di cera prendere nuova forma.
Come sigillo del divenire.
Ancora un giorno fragile
Equilibrio. Senza. Assenza
Ondeggiamo spudoratamente.
Cristalli inquieti.
Ondeggiamo.
E scintilliamo.
Nonostante il velo che ci avvolge.
Siamo segnati da impronte.
Ci urtiamo. Graffiamo. E ci graffiamo.
Non ci accorgiamo del riflesso.
Ci concentriamo sui graffi.
E' più facile vedere il brutto
che ammirare il bello.
La bellezza spaventa.
La belva è tornata.
E' qui. E mi fissa. Avida e beffarda.
Sono la sua preda.
In attesa.
Sono il suo pasto.
Adesso sbadiglia.
Ma continua a fissarmi.
"Non indugiare. Strappa un altro pezzo".
Con un ghigno mi fa capire che non gli interessa il mio cuore.
Vuole la mia carne.
Siamo cuore annegato nella carne
che a volte tra spasmi riemerge.

Siamo ingordi bachi da seta.
Secerniamo fili.
Incautamente spezzati.
Perchè a volte ci sono fili
che ne lasciano riaffiorare altri.
Matasse di dolore.
Dovremmo avere tanto rispetto per le parole.
Nelle parole degli altri
si annidano le nostre paure.
Prendono forma.
Ci fanno la tana.
Si insediano tutte le paure
che nascondiamo nelle nostre parole
e alle nostre parole.
Oggi non ho voglia se non di non avere voglia.
E' un giorno fragile.

E come cristallo opaco ondeggio.
Il mio posto è nel vento.
Sembrava facile.
Poggiai la fronte sotto un ruscello.
Sentii le sue meraviglie.
I prodigi di una fonte.
E mi convinsi di essere acqua.
Acqua dentro l'acqua.
Mi sentivo ognuna di quelle gocce
che mi scivolavano addosso.
E io goccia tra le gocce.
Sicura di riuscire anche ad essere onda.
Di subire la forza delle maree.
Di potermi mescolare alla sabbia.
E riempire di baci la battigia.
Poi mi accorsi che ero ancora io.
Un pò mi dispiacque.
Un pò no.
Sembrava facile.
Non lo era.
Adesso sarebbe facile cancellare tutto.
Ma non serve.
Queste sono solo parole.

Troppo facile.
Un colpo di spugna.
E ricominicare.
Ma restiamo quello che siamo.
Con il nostro fardello di vita.
Così è se vi pare!

Ci sono parole a cui non sei abituata.
Quelle che fanno molto poco rumore.
Hanno sillabe esili.
Flebili fruscii.
Quasi non sapevi che esistessero.
Si nascondono. Come sicari.
Dietro angoli di calce.
Fiutano la preda.
E come ladri rubano. Rubano attimi al tempo.
Tic tac.
E ti spiano.
Tu non le vuoi più.
Parole che non puoi ascoltare.
Non ti interessano.
Adesso vuoi sogni.
Hai voglia di sogni.
E di magia.
Con le orecchie piene di fiabe.
E le tasche di luna.
Tanta tanta luna.

E' che ci sono strade che non vedevi.
Lastricate di risposte.
Si camuffavano da spighe di grano.
Mimetizzandosi in punti di domanda.
E' che adesso ammaestro farfalle.
Così è se vi pare!

Ci sono parole a cui non sei abituata.
Quelle che fanno molto poco rumore.
Hanno sillabe esili.
Flebili fruscii.
Quasi non sapevi che esistessero.
Si nascondono. Come sicari.
Dietro angoli di calce.
Fiutano la preda.
E come ladri rubano. Rubano attimi al tempo.
Tic tac.
E ti spiano.
Tu non le vuoi più.
Parole che non puoi ascoltare.
Non ti interessano.
Adesso vuoi sogni.
Hai voglia di sogni.
E di magia.
Con le orecchie piene di fiabe.
E le tasche di luna.
Tanta tanta luna.

E' che ci sono strade che non vedevi.
Lastricate di risposte.
Si camuffavano da spighe di grano.
Mimetizzandosi in punti di domanda.
E' che adesso ammaestro farfalle.
Così è se vi pare!

Ci sono parole a cui non sei abituata.
Quelle che fanno molto poco rumore.
Hanno sillabe esili.
Flebili fruscii.
Quasi non sapevi che esistessero.
Si nascondono. Come sicari.
Dietro angoli di calce.
Fiutano la preda.
E come ladri rubano. Rubano attimi al tempo.
Tic tac.
E ti spiano.
Tu non le vuoi più.
Parole che non puoi ascoltare.
Non ti interessano.
Adesso vuoi sogni.
Hai voglia di sogni.
E di magia.
Con le orecchie piene di fiabe.
E le tasche di luna.
Tanta tanta luna.

E' che ci sono strade che non vedevi.
Lastricate di risposte.
Si camuffavano da spighe di grano.
Mimetizzandosi in punti di domanda.
E' che adesso ammaestro farfalle.
Così è se vi pare!

Ci sono parole a cui non sei abituata.
Quelle che fanno molto poco rumore.
Hanno sillabe esili.
Flebili fruscii.
Quasi non sapevi che esistessero.
Si nascondono. Come sicari.
Dietro angoli di calce.
Fiutano la preda.
E come ladri rubano. Rubano attimi al tempo.
Tic tac.
E ti spiano.
Tu non le vuoi più.
Parole che non puoi ascoltare.
Non ti interessano.
Adesso vuoi sogni.
Hai voglia di sogni.
E di magia.
Con le orecchie piene di fiabe.
E le tasche di luna.
Tanta tanta luna.

E' che ci sono strade che non vedevi.
Lastricate di risposte.
Si camuffavano da spighe di grano.
Mimetizzandosi in punti di domanda.
E' che adesso ammaestro farfalle.
Le linee della mano
.
.
Le linee della mano.
Sul tuo palmo liscio.
Candida rete di vita "in nuce".
Proiezione della tua energia.
Cunicoli nella pelle.
Netta mappa di sogni.
Sospesi.
Infiltrati.
Tessuti di sangue e nel sangue immersi.
Frammisti al battito del tuo polso.
E al suo ritmo incerto e inquieto.
Scandisce il tempo.
Il tuo tempo.
Constati.
Tempo e attimi e pelle e sangue e sogni.
Sei esattamente questo.
E adesso richiudi quel palmo.
Nessuno dovrà strapparti le tue linee.
O cambiarne il corso.
Accarezzalo e annegalo nel più bieco pudore.
Non dovranno arrivare sotto la tua pelle.
Nessuno ci dovrà scivolare dentro.
Odio il bianco
.
.
E' negli angoli che si annida l'inconoscibile.
O solo inconosciuto.
Proiezione e compressione di noi.
Ed è là che voglio incastrarmi.
Incastrarmi e incastonarmi.
Come pietra di fiume lungo il suo argine.
Adagiata e contratta.
E rapirmi. Strapparmi.
Polvere e me.
Me e voglia di me.
Non ho paura dell'indefinito.
Solo dei circoli perfetti.
Lindi, leziosi e pretenziosi.
Pulire le pareti sporche o sporcare quelle candide?
Angoli e bolle.
E in una bolla un albero si allontana.
Sorride leggero.
Gioca con le altre bolle.
Lo vedo sempre più lontano.
Senza radici.
Lieve e ondeggiante.
E io linfa scorro e scorrerò senza albero.
E me tra linfa in rigagnoli di linfa e terra.
Sono le mie radici.
In quell'angolo.
E anche altrove.
Superfetazione.
Di un ego perplesso.
Il mio.
E' che ora avrei voglia di pane, burro e marmellata.
Viaggio dentro di me.
.
.
.
Viaggio dentro di me.

A saltelli.
E ancora stelle.
Me le dipingo nella testa.
Ne ho un disperato bisogno.
E mi ritrovo bimba.
Con la luna per palloncino.
La tengo stretta.
Con il filo dei sogni attorcigliato alle dita.
So che mi sfuggirà.
Sorrido. Ogni volta è tornata.
Ogni volta è riapparsa.
Inaspettatamente.
Con le sue carezze.
Con il senno di poi direi
che forse era meglio di no.
Ma poi chiudo gli occhi.
So che sto barando.
Sì.
Voglio ancora luna.
Senza paura.
Perchè la paura uccide i sogni.

venerdì 20 febbraio 2009

Scavo aria. E lecco sangue. Di ferite immaginarie. Crepe su un muro morbido. Mi nutro di finto sangue. Sangue evanescente. Fiume e propagine del nulla. Perchè di nulla si tratta. Io non odio. Solo per qualche istante. Poi sradico quei frammenti di orrore. Da dentro me stessa. Non odio e li lancio lontano. Mentre dovrei sopportare. Trattenere. Ho uno strano rapporto con il dolore. Non lo rispetto. Scavo con furia. Con dita d'aria. E a volte occhi. Anch'essi di aria. E poi di sogni. Sogno un mondo leggero. Come una palla che si rotola nel sole. Affinchè nessuno abbia freddo. Spillo frammenti di amarezza e di angoscia. Estratti a caso. Come se riuscissi a secernere solo errori sfusi. Generici ed impecisi. Indefiniti con i contorni tremanti come passerotti nel gelo. Tra cuore e mente. Mi nascondo. E non affronto. Non più. E li confondo sempre. E scavo. Per riporre un segreto che non conosco. Ma che posseggo. Perchè piantandolo possa crescere.

Oggi il tempo mi sembra un accessorio.

giovedì 19 febbraio 2009

Di solitudine io imbratto i muri.

E come vernice gli errori sbattuti.

Contro.

Scarico i ricordi dentro il tempo.

A fondo.

Poi raccolgo ogni goccia.

Veleno sublime.

Anche se ormai la mente

ha cassato ogni possibilità.

Scrivo senza sangue.

L'ho dimenticato in un campo.

Scorse ed annacquò mille primavere.

Non ne ho più ormai.

E sbavo ogni pensiero.

Deformandone i contorni.

Sbavo e confondo.

Fino a trasformare certezze

in approssimazione.

Come se ogni pensiero stesse morendo di sete.

Io non rileggo mai quello che scrivo.

E' così che gli occhi possono dimenticare.

La pelle scivola sotto il tempo.

Schiava devota e serva.

Lo raccoglie.

E di illusione io mi nutro.

Mordo illusione.

L'inchiostro dei miei giorni.

Nella più crudeli delle bulimie.



Asimmetrica è la mia percezione del tempo.

Scorre il mio dolore.

E investe la gioia.

La copre.

La travolge.

Si sgretola.

Cede come

duna di sabbia.

E le mie braccia sono incastrate.

Nel passato.

Nella morsa madida di un tempo scorso.

Uno dei tanti.

Catene come ciuffi di erba selvaggia.

Ma il loro odore è incastrato nei miei occhi.

Sul loro fondo.

Come se la pupilla fosse una tenda.

Se li guadassi scorgeresti erba in delirio.

Ed i suoi graffi.

La sabbia cede.

La duna scivola ancora.

Nella rete di desiderio ardito e odoroso.

Ingoiato nelle viscere della terra.

Sempre a caccia di acqua.

Pura.

La solitudine imbratta e scava.

E la pece si insinua in ogni dove.

Nel pozzo della incauta voglia di vivere.

Scivolo.

Quale dei miei giorni è questo?

E nei sensi io riavvolgo il mio corpo.

Mi vesto di aurora.

E la cospargo sulle labbra.

E questo mi fa credere che

tutto possa ancora essere.

martedì 17 febbraio 2009

Spesso dimentico di dimenticare. Le promesse sono imbuti. Dentro vi scorre la vita negata. Fino a restarne incastrati. Nè dentro. Nè fuori. Sospesi in quell'imbuto. Un viaggio a metà. Incastrati tra volontà. E tutto il resto. L'altro da noi. Il diversamente noi. E mi ricordo di ricordare. Anche se forse è tardi.

Ognuno crede di conoscermi.

Come se io fossi un libro senza copertina.

Ognuno può leggervi dentro.

Tutti credono di conoscerne la fine.

Ma qualcuno ha strappato anche l'ultima pagina.

E non c'è un finale plausibile.





Altrove è solo un posto. Come tanti. Nascosto alla voglia di vederlo. Il rifugio delle volontà interrotte. Dove ci nascondiamo. Dimenticando di tornare a cercarci. E adesso basta. Basta è solo una parola. Sillabe di acanto vorace che chiosano pensieri. Alla fine del salto. Avvinghiandosi alle labbra. E mentre le pronunci quasi le sillabe tirano la pelle. E si stagliano su un cielo improbabile. Afono. Su uno stagno che lo risucchia. E non ne distingui i margini. Tra cielo e palude. Rinnegati ad ogni e qualsiasi primavera. E' un cielo capovolto. Destinato a raccogliere ciò che cade. Come se fosse un prato incapace di cospargersi di sole. Appunto un imbuto. Sotto arriva poco. O nulla.

Non devo dimenticare di ricordare.

E ricordare di dimenticare.

Poi ogni parola troverà il suo posto.

Anche quelle non dette.

Il posto delle parole è quel cielo che si finge campo.

Il campo in cui ogni notte fioriscono stelle.

*Attendo avidamente il nuovo giorno*.
Attraverso
Attraverso la luce mi percepisco. A pezzi. Frantumo ombra. E mi cospargo le labbra di polvere. Frammenti di ombra. Per infilarci schegge di realtà. Ma tagliano. E' come strappare i petali ad un fiore. E contemplarne le ferite. Cercando di capire dove si annida il dolore. "Perdonami piccolo fiore. Non volevo. Ma ho dovuto. Dimmi dove è la ferita. E io la lenirò .Un bacio non basterà ma ci proverò. Nulla è più crudele della tenerezza.". E' questo l'interrogare il tempo. E' questo l'intrecciare onestà e ipocrisia. Con se stessi. Ombre incastrate ad altre ombre. Una collana. Come le parole di un racconto. Ognuna ha la sua importanza. Ombre incastrate. Non riesco a scioglierle. Sono incastrate ai miei capelli. E a dannate spighe di grano. Mature. E strette a nastri di rancore. Rossi come tulipani nel vento. Solliti ed infidi come fili ostili. Pungono la mia testa. Ogni volta che la inclino. Per sentire il vento. Sbatte sui miei lobi. Straziandoli di baci. Languidi e morbidi. Ho fuso l'anima con il cuore. E adesso gocciola. L'anima gocciola stille di cuore. Il cuore è sciolto nell'anima. E non lo trovo.
Mi sono fatta un vestito di sabbia e di aria.
E lo indosso.
Mi fascia la carne.
E risucchia il respiro.
Mi costringe a respirare lentamente.
Come se fluttuassi in un tunnel.
Di incoscienza.
Rossa.
Dove è il mio coraggio?
Mi faccio statua.
Di aria e di sabbia.
Nella più casta delle pose.
E fingo.
Per restare.
E resto.
Senza più attendere.
Ma non lo sono.
Non sono una statua.
Il mio sangue scorre e lo grida.
Anche se a volte non vorrei.
Voglio il silenzio.
Una statua non deve la sua verità.
A nessuno.
Non deve nulla.
Può lasciarsela strisciare dentro.
E rimbombare.
Dentro i corridoi bui e stretti.
Della sua coscienza.
E percepirne ogni movimento.
E ogni pausa.
Può ascoltare ogni fruscio del suo tormento.
Anelli di una collana senza fine.
E mi attraverso.
Inutilmente.
Muta la mente e logori i passi.
E quelle orride spighe di grano.
Ancora nei miei capelli.
Incastrate al mio cranio immobile.
Inorridisco all'oblio.
E lo raccolgo.
Lo ripongo.
Come una freccia nella faretra.
Altro non posso.
Né voglio.
Quello che voglio non lo so.
Nella gabbia di cristallo
C'è una intimità che è davvero rinchiusa in uno scrigno. Con il senso di una inviolabilità. Quasi sacra. Inspiegabile. E' il tempio della nostra anima. Sospeso ma dentro di noi.
Oscilla anche se è ferma.
Non ci arrivi quasi mai.
Una specie di pelle al contrario. Se buchi l'esterno comunque non la tocchi. Là si colloca una parte di noi. Necessaria ma non essenziale. A volte, la semplice idea che per altri sia così facile toccare la tua vita ti dà ribrezzo. Le loro impronte sui pezzi della tua esistenza. Sui tuoi oggetti. Sulle tue cose. Non è un inutile senso di possesso.
Ho sempre beneficiato del giusto distacco.
Una specie di riverbero benefico del precetto evangelico della irrilevanza delle cose materiali. Riveduto e corretto. Quando perdevo le cose, spesso in verità, mi ripetevo che non era così grave. Anche se erano le scarpette della barbie, destinata a restare in eterno scalza, o perlomeno fino all'arrivo della sua nuova rivale con cui avrebbe condiviso quei tacchi di plastica. Una piccola fitta e mi rassicuravo. Una viziata filantropa. Bella roba.
E' che a volte non sai fino a che punto gli altri possono spingersi
e vorresti capire fin dove arriveranno.
Calibrare la distanza. Anticiparne le mosse. Quasi focalizzare quel punto e misurare quel momento. Da là nasce la diffidenza. Figlia di troppe impronte sbagliate. L'ho imparato da piccola. Fu scritto nella mia carne. Un tracciato senza via di ritorno.
La linea tra il bene e il male non si vede ma c'è.
Ma stata così netta.
Come margherite sfogliai la mia dignità. E grondai di quei petali. Lenti e sminuzzati. Dalla corolla al suolo. Non erano più bianchi. Non lo sarebbero mai più stati. Con le dita impregnate. Strati di dignità mi colavano tra le mani. E ci affondavo le dita. E le risucchiavo. Incredula. Svolazzarono davanti al capo. Mi voltai. Mi inondarono il viso. Chiusi gli occhi. Solcarono il mio collo. Mi impedii di respirare. E io inerme e scostante ne divenni il ricettacolo. Come fruste segnavano la mia carne. Solchi in cui si perdeva parte di me. Senza tornare più. Come fiume in piena. Ma senza foce. E i petali ai miei piedi. Nessuno doveva raccogliere. Nessuno deve farlo. Sarebbe come immergersi nelle sfoglie fragili della mia dignità latente e sorda.

Ho imparato a estrarre da dentro di me ogni dolore.
A tenerlo tra le mani.
Dietro la schiena.
Mentre ancora palpita.
E non smette di contorcersi.
Ad osservarlo.
Ho imparato a leccarmi il cuore.
E a ripulirlo.
Nulla è più puro del dolore.
Io ti ho sentito scendere dentro di me.
E là voglio che resti.
Ma non aprire vecchi armadi.
Della mia coscienza.
Non bermi.
Non sono acqua.
Sono sangue infetto.
E la sua coppa.
Smetterò di preoccuparmi della verità.
Ora è il tempo della apparenza e dei suoi fruscii.
Ma forse anche ieri.
INDIFESA

Indifesa era la mia anima dall'assedio di graffi di stelle. E i loro solchi. Su percorsi ignoti. Perché ignota è la meta. Viandanti i pensieri su carni sconosciute. Fango e polvere. Praticamente cuore. Perché di terra siamo fatti. E di terra odoriamo.
E la luna strideva sulle ossa.
Incantevole e crudele.
Lama di luna.
Mi sembra ancora di sentirne l'eco famelico e dolcissimo. Rintocchi erranti di un pendolo senza ore. Alla deriva. E l'orda cruenta annodava istanti fatti di assenzio. Fusi con le mie ossa e a saliva. A paura cruda. Sparsa e spersa. In un viaggio senza soste. E senza ritorno. E a indecenti pezzi di cieli.
Il suo riflesso si ribaltava in baci.
Baci di luna.
Nudi.
Indifesi.
A caccia di calore. Mordevano l'aria. Per non morire di freddo.
Di una luna guerriera.
E delle sue armi.
Di sangue e di passione inzuppate.
Fino a fremere in una fine come tante.
La pelle era il confine trasparente di anime. E di quella fame. Un cristallo e le sue crepe.
L'amore immaginato si vive con la mente vera.
Sottile è confine tra sensazioni e sentimenti.
E a volte io lo ignoro.
E mi ferisco con le lame dell'ignoto.
Fili di una rete fatta di tempo e di emozioni e di paure.
Le mie paure sono diverse da quelle degli altri.
Sono strane come me.
Ho paura.
Arte_fatta


Mi infilo tra strati di solitudine. E mi racconto una fiaba. Per addormentarmi. Tra pagine di malinconia densa. Come cioccolata calda. Le mie dita a frugare un po’ di buon senso. E a inciderlo nel vento. Invano. Nessuna traccia. E' una caccia di farfalle di aria. Implose nel colore. Destinate a scorrere nel fiume di sé. La trama mi sorride. E' di velluto il buio. Liscio e buio. Adagio ogni pensiero tra le coperte dell'oblio. E scivolo. Silenzio senza un baricentro. Ondeggia. Profumo di acqua e gelo. Puro è il silenzio. Contaminato dal battito del mio cuore. E neve tra le ciglia. Per non sentire. Per nascondermi. Dentro i miei occhi. Oltre l'apparenza di quel buio. Mi mescolo. Da una parte o dall'altra qualcosa di buono ci sarà. E' come se la mia mente sia una entità separata da me. Confinata tra le grate di aria dei suoi pensieri. Neve tra le ciglia. Non sento. Sono la luce pura che si scorge in fondo ai miei occhi. Nel bene e nel male. A volte vorrei dormirti nella testa.
E non svegliarmi più.

"... Ma l’intrinseco dualismo delle mie intenzioni gravava su di me come una maledizione, e mentre i miei propositi di pentimento cominciavano a perdere mordente, la parte peggiore di me, così a lungo appagata, e di recente messa alla catena, prese a ringhiare. (...) e come accade a chi persegue vizi privati, alla fine cedetti agli assalti delle tentazioni. (...) e questa breve condiscendenza al male che avevo in me finì per distruggere l’equilibrio della mia anima..."

Stevenson, Dr. Jekyll and Mr Hyde
Dov' è casa?

Nella mia mente. Sono a casa. Nella mia casa. Tra le lenzuola della mente. Quando chiudo gli occhi. E il mento si poggia sulle mie mani che lo raccolgono. E si poggiano sui miei gomiti. Casa è in quell'istante. In cui mi ritrovo. Senza chiedermi nulla. Senza tempo. E con tutto il tempo che c'è. Senza rinnegare il sangue. Percependone il fluire. Sono a casa. Nel mio unico vero abisso. Dove sprofondare è respirare candida conoscenza. Di colori mai dipinti. E di parole mai gridate. Dove le emozioni si intrecciano come edera al fusto del tempo. E quella voce, che poi sono io, mi attraversa la mente e si lascia fluttuare nel corpo. E fibra di sé. E vivo e rivivo. Mi rassicura. La mia casa è la mia mente. Ed una storia da comporre e scomporre. E ricomporre. Sono a casa. Nella mia voglia di amare. E nella purezza di quella voglia. Una purezza che non ha regole. E mi esplode dentro. Come il desiderio. Scorre come un fiume. E la chiamiamo vita. E voglia di vita. E' quella casa. Respiriamo da uno stesso fiume. Ma ognuno a modo suo. E in quella serie di respiri la gioia diventa delusione. La delusione diventa amarezza. E l'amarezza si stinge nel dolore. Come seme. Di altra gioia. Un germoglio del divenire. Ancora. Di altra edera che si avvinghierà. In una catena di foglie che struscia ma che si fa cerchio. Perfetto. La mia casa è quel cerchio. Dove il senso esiste oltre l'adesso. Ed oltre il poi si è già perso. E' la grammatica del cuore.
Casa è nelle parole calde che la mente secerne. Sanno di ricordi. Come gigli e fango. E smette di esserlo quando le stacco da me. Per piacere. E sventrare la pancia della solitudine.
Allora casa è davvero lontana.
Arde il vento del passato. Si scinde dalla pioggia. Diventa rugiada. Pura e lenta. Eco del sole. Segna le foglie di una mappa sconosciuta. Annegando in rivoli e stomi di dubbi. Inaspettatamente. Ho sete. Bevo senso di vita. Pura. Non ho paura. Di donare schegge impazzite della mia anima. Rivoltata. E spezzettata. Nel gioco degli specchi la verità si è impiccata. Ma la menzogna non è non verità. E' rantolo di debole orrore. Di un bisogno affamato. Si nutre di sé. E della sua idea. Sconosciuto infido contro muri. E spigoli osceni. Nessun luccichio della fragilità. Ondeggia e tintinna. Percepisci ogni sua vibrazione. E in ogni vibrazione ci sei tu. Veli di anima nel vento. E nuvole nella mente. A volte sangue. Vivido e lieve. Parentesi. Tremo tra parentesi. Nascondigli del vuoto. Affascina immensamente. Nel vuoto puoi rotolare nel poco di te.



Persa tra pareti. Lembi tremuli del tutto. L'anima sorride. Musica. Battiti. Istanti. E respiro. Davanti ad un altare. Nel rito della intimità. Sacerdotesse e sacre puttane. E' rosso il sangue. Come velluto. Nessun segno. Solo un immenso manto in cui avvolgere le nuvole. Prima che scompaiano.

Credo si chiami paradiso perduto.
Ma i nomi non contano.
Sono i contorni labili di nuvole.
Finestre su quel vuoto.
Sapeva di vero il primo bacio. Tutto troppo vero. Oltre le favole. Nessuna campana a segnare l'incanto. Due lingue che si intrecciavano. Maldestre. E timide. Quella fu la prima volta in cui l'intimità tappezzò la mente. Senso di confusione. E di errore. Le dita e morsi di dita tra le ossa. E gli occhi chiusi. Con la voglia di spiarsi. Dicevano che se li avesse tenuti chiusi avrei capito se gli piacevo davvero. Preferii non saperlo. Fu la prima di tante volte. Io non volevo sapere. E anche se sapevo fingevo di non sapere. E l'intimità si arrotolò al senso di indegnità. E di inferiorità. Come se la luce splendesse altrove. E oltre quell'istante, il mondo fosse alla fine. Al suo confine indotto. Vivevo obliqua. Con il vento per amico. E le sue canzoni. E la sua voce. E la paura di sfidare occhi. Ho dovuto fingere di essere dritta. Anche adesso. Ma quando sono sicura che nessuno mi veda piego la testa e torno nel vento. Nei capelli e nel cuore. E tra le dita. E' così che si è liberi. Sentendosi fino in fondo. Scoprendo anfratti dimenticati. E ciò che appare agli altri è solo mera scia. Di una mente nata obliqua. Forse l'ombra di un'ombra. Sono una donna albero. Abbiamo un cuore che vaga con le sue radici. Di sangue e terra. E senza forza di gravità. E a volta si incastra nell'ombelico. Altre nel lobo. E ci sentiamo batterci contro e dentro. Ancora tra i seni. Come se fossimo la madre del mondo. E poi nel ventre. Cuore di luna e di rugiada. E le sue radici si intrecciano. E a volte soffocano.

E poi è più semplice camuffare la menzogna che la verità.
Ma nessuno se ne accorge.
La verità camuffata cessa di essere verità.
La menzogna camuffata resta sempre e comunque menzogna.
E' che il cielo è un immenso velo ricamato di stelle.
In cui la luna gioca a nascondersi.
Anche se c'è.
Come se la notte fosse una belva nera.
Una fiera con le sue fauci.
Vogliose.
La attraverso.
Immobile.
E i miei occhi non bastano.
Il cielo è cieco.
Non ha occhi.
Nessuno spiraglio.
Si ammassa sulla terra che dorme.
In strati di notte.
Giri di corde.
E alla fine un nodo.
Solchi e ricordi.
Si sedimenta la rabbia.
Ma poi scivola come polvere.
Diventa esperienza.
Arde il silenzio.
Sola.
Con il mio battito e due fari nel buio.
E la voglia di tenerezza che avvolge la carne.
La asfissia.
E' una puttana senza memoria.
Ha dimenticato di chiedere il suo prezzo.
La mia pelle reclama voglia di tenerezza.
E di essere protetta.
Come un seme.
Solo così può schiudersi.
Con la terra che gli fa da culla.
E da coperta.
Senza più freddo.
Non ho voglia di rubare immagini oggi.
Nessuna sarebbe me.
Perché non sono mie.
E io voglio qualcosa di solo mio.
Ma non posso scindere questo istante dal tutto.
Sarebbe uno schizzo.
Il tempo è solo una intuizione.
Labile.
Che senso ha nascondersi nella verità?
La notte è un tunnel.
In fondo c'è sempre il sole.
Voi non lo sapete. Non potete. Quanto freddo potesse starci dentro. Una stiva di neve a pezzi. E roteavano mille soli di ghiaccio puro. Era giorno o notte? E si restava immemori. Dimentichi della realtà. Penzolava al soffitto. Impiccata. Tra lame di orgoglio spento. Livido. Appesi a sguardi. Indifferenti. Di una tenera crudeltà. Di nastri rossi. Così si restava. Graffi d'occhi avidi. Rendevano trasparenti. Come gelo. L'anima nuda. A rifocillarsi di fiato liquido. E a rubarlo. A strapparlo al tempo. Goccia per goccia. E il peso di quegli occhi. Quelle come me. L'hanno provato. Almeno una volta. E sanno. Brucia. Fiamma di gelo. E la carne supplice d'amore. Vero. Chiedono perdono. Senza colpa. E cercare negli altri la misura della propria inconsistenza. Fate evanescenti. Regine di colori. Destinate a sciogliersi all'alba. La mani fatte di pane. E briciole ovunque. Persino nei sogni. No. Non lo sapete. Perché non potete. Si resta nudi per sempre. Nonostante la vita. Quegli occhi hanno scavato un percorso. Ed è difficile lasciarsi ancora guardare. E se lo si fa l'ombra della colpa antica devasta. Non so se faccia più male o più paura. O forse tutta quella paura è solo una scusa. Fatta di stracci e di gocce di cera. Bestia dentro la gabbia. Questo sono. La belva mi ha rinchiusa. E adesso fa la domatrice. Di quelle come me. Dura la lezione da imparare. Ancora non ci sono riuscita. Ma mi impegno. Io sono onda senza mare.
Senza. Senza parole. Come foglie di alberi senza radici. O come radici di un tronco senza mai frutti. Pensieri sfusi. Mi sfaldo. In polvere e coriandoli di seta nuda. Come la mia mente. Nuda ed indifesa. Scatola umida dei sensi. E di anima. Rivoli d'anima e di respiro. Nulla è più difficile di un abbraccio. Non è questione di pelle. Ma di cuore. Protendersi e ritrarsi. E' un gioco crudo. Rami spezzati. Da ardere.
E il fuoco lascia sempre la sua traccia.
Per chi ha gli occhi giusti.
Senza.
Senza parole.
Le strappo e le nascondo.
E non è mai silenzio.
L'unica cosa che vorrei ora è essere tela.
Del tuo desiderio.
E sentire le tue labbra.
Qui.
Sul mio palmo.
Come se fosse il centro del mondo.
Raccogliere le tue labbra nelle mie mani.
E non è mai silenzio.
Erano di neve quei biscotti. E io mangiai neve come se fosse delirio. Fatto di pura glassa. Mordevo delirio. La più ghiotta delle leccornie. Lo assaporai. Schiacciandolo sotto al palato. Friabile. Era fatto di strati di fragilità. E lo trattenevo fino a farlo sciogliere. E lasciandomelo scivolare. Leggero mi percorreva. Vena per vena. Conosceva il percorso. L'unico possibile. Adagiato il gelo dentro. Ero convinta di poter sciogliere. Tutto. Di averne la forza. Mangiai neve e silenzio. E non bastava mai. Avevo ancora fame. E molta strada da fare. Ma ero in viaggio. E pezzo dopo pezzo non c'ero tutta. Non più. Ma c'ero.





L'assenza da sé è un viaggio. Il viaggio nell'assenza sembra non finire mai. Confondi la partenza con l'arrivo. E continui a viaggiare. Ma io voglio scendere. Ma alla prossima fermata. Questa è troppo affollata. E io non voglio che mi vedano in queste condizioni. Sembro sbronza. Il finestrino è opaco. E io posso solo immaginare fuori prati di carbone. Aspetterò ancora una fermata. Una di periferia andrà bene. Ci sono abituata. Con le panchine di cemento dondolanti. Coperte di messaggi. Ognuno vuole lasciare un segno nelle vecchie stazioni. Anche i più ignobili.

Nessuno deve capire. Dopo una indigestione di neve io sono ancora fuoco.

E di fuoco vivo.

E' lui che ha distrutto dei pezzi di me.

Ma a primavera ne rinasceranno altri.

E non sarà dalla cenere.

domenica 15 febbraio 2009


"Come stai?"
Non lo chiedo mai. E tu non lo chiedi a me. E' superfluo. E cosa conta allora? Io forse lo so. E tu?
Uno, due e tre.
Perché di numeri sono fatte le parole.
Ed i pensieri.
Se ripensassimo ai pensieri pensati, resterebbero solo numeri.
I pensieri sono fatti di cifre e di materia.
Di luce e di buio.
E io ho il buon senso di non farlo.
Non voglio sapere.
Smetto di contare.
Ho paura del risultato.

La vita è un numero.
A volte, una somma.
A a volte, una differenza.
Un numero solo.
Con un cuore dentro.
Al suo interno.
Come un albero.
Ed i suoi rami.
Numeri nei numeri.
Fino all'unità.
Meravigliosi incompiuti.
Destinati a mischiarsi.
Nati per questo.
Fatto di passi e di respiri. E' il mio silenzio. E di battiti di ciglia. E labbra di sole da baciare. Destinate a schiudersi come albe. Questo segna il tempo. Spersi alla ricerca di un sì in cui annegare. Pur restando numero. Tra migliaia di altri numeri. Ognuno vive la sua vita. E continuare a farlo imponendosi di non pensare alla vita degli altri è davvero difficile. Far finta di non percepirne il battito. Ignorare non sempre significa non sapere. E poi specchiarsi nelle acque. Ma al contrario. Dal fondo verso il cielo.
E' come riflettersi nel cielo.
Nello specchio a volte non ci scorgiamo.
Vediamo solo i nostri limiti.
Uno, due e tre.
O forse più.
E' il buio la casa dei numeri.
E a volte la luce.
Perché anche di buio è fatta la luce.
E di luce il buio.
Esercizi di cuore e anima e poi altro non so.
Non ti chiedo mai: "come stai?".
E questo è un errore.
Anche i numeri sbagliano.
Ma non lo ammettono mai.
Non possono.

Non ci sono.
Ho ascoltato gocce di pura indifferenza. Pioveva. Adesso no. Come melodia di note bastarde l'assenza di pioggia riempie e riga l'aria. E il cielo le raccoglie. E io raccolgo il cielo. Dammi la mano e danza con me, adesso. Ora che il cielo è così liquido. E infilo gocce sue nelle mie vene. Una per una. Inietto inesistenza. O vaga esistenza. Con dovizia e parsimonia. Perché nulla vada sprecato. Come se fosse nettare. Ma è altro. E altro da sé. Lo sapevo. Lo so. Da sempre. Io non sono e non ci sono. Overdose.
Ho visto occhi,
come diamanti,
fatti di durezza e rabbia e assenza e desiderio.
Non erano i miei.
Né per me.
Li ho raccolti come gatti randagi.
E vi ho infilato anima.
Mi è tornata indietro.
Come ad un fermo posta dimenticato.
E' vero e poi non è vero. Verità e finzione e vita si mescolano. E' che la trama è sempre la stessa. E io mi ostino a recitarmi. E ad assegnare ruoli. A pretendere. O forse a vivere. E piego parole alla mia volontà e volontà alle mie parole. E non funziona mai. Mai. Ho perso l'incanto. Come il bandolo della matassa. E cerco di dipanarla al contrario. Fili e parole e promesse e bugie. Ha un odore inconfondibile la menzogna. Ma non lo ricordo mai. Ogni cosa ha il suo nome. Ma io preferisco non saperlo. E a dargli quello che voglio io. Si chiama fine. E forse è un battesimo di amore. Blasfemo come solo l'amore sa.
Lascio scorrere dentro le mie vene pezzi di delusioni.
Galleggiano.
Come foglie.
E le rincorro.
E non è giusto.
Mi immergo per afferrarle.
E quando le tocco svaniscono.
Non esistono.
Non esiste nulla. Non esiste il dolore. La rabbia. Il perdono. Ho scritto una trama fatta di aria. E ho recitato sempre lo stesso copione. Non c'è la fine. Sono io che decido. Scavando una terra senza seme. Ho disegnato le radici di un albero che non sarebbe mai stato. Non ci sono. E se chiudo gli occhi scivolano lacrime inutili. Rigagnoli di linfa impura. Che sapore hanno? Bevi le mie lacrime. Sanno di vita e di coraggio impiccato. Di orgoglio riavvolto in nome di un sogno. Sì. Si chiama fine. Ma non ci sono. Non ho più voglia di guardare. Forse voltarmi e non guardarmi più avanti è l'unica cosa da fare. Perché è là che stavo guardando. Nella valle del tempo confuso.
E dimenticarmi.
Cancellarmi dalla mia mente.
C'è uno strano veleno in circolo.
Basterebbe slinguarlo.
Conservandolo dentro più possibile.
Per trovare l'antidoto.
E poi smetterla.
E sbaglio ancora il nome.
Che nome ha?
E io?
E non ci sono.
Ho voglia di bere da quel flacone.
Tutto in un sorso.
Quel sorso che si chiama decisione.
Così forse non sentirò il sapore.
Il mio cervello non avrà tempo.
Per fermarmi e salvarmi.
O per accelerare.
E forse è la stessa cosa.
E sarà troppo tardi.
O troppo presto.

Ho rivisto nei mie occhi schizzi di sale.
Scesi fino alla grotta del cuore.
In un istante.
E' sempre quello sbagliato.

Innocente è il peccato. Se puro è il desiderio. Immondo è l'attimo in cui si scinde il desiderio dal bisogno. Raccolta come neve, mi sono sciolta. E non ci sono. Più. Ma è sempre la stessa storia. La trama è nella mia mente. E la fine la conosco solo io.

Roba di attimi.
In un cesto

In un cesto di more e rovi ho deposto la mia pelle.
L'ho strappata.
Annusata.
Accarezzata. Graffiata e poi ricoperta di baci.
Lenita e poi striata ancora.
Adesso è ancora là.
In quel cesto.
Si agita e trema nel vento.
E io sono senza pelle.
Sotto la mia pelle scorrono prati di ombra.
Prima non lo sapevo.
Immensi ma placidamente mossi.
Asciugati.
Prosciugati.
Divorati dal futuro.
Cosparsi di margherite esangui.
Strisciano il suolo con i loro petali disperati.
Urtandosi le corolle incredule.
In attesa della pioggia.
Perché io non ho più sangue.
Siamo tutta la sete di sogni che proviamo.
Che siamo capaci di sentire.
E ci contorce e stritola la vita.
Ci spinge a desiderare fiumi d'acqua.
Mentre basterebbe
solo
una timida
e parca
goccia.

Come fazzoletto
Come fazzoletto la memoria.
Ripiegata in quadrati di ricordi.
Puzza di candore perduto.
Quando tutto odorava di un bianco imbarazzante.
Strato su strato.
Si adagiano veli di pallide verità.
Come labbra consumate e rigate dal freddo.
Spaccate e divorate da tempeste mai soffiate.
Esperienza. Sensazioni.
Sensazioni come solchi di esperienza.
Rivoli in cui tenta di incanalarsi l'esistenza.
Prima di dimenticarsi di sé. E dei suoi errori.
Nodi nella mente.
Non per ricordare.
Ma per non dimenticare.
E io sento neve. E' scesa nei meandri della mia coscienza.
Lacrime inesplose e intrappolate in cristalli.
Sento quel gelo che quasi incanta.
E non sai se averne paura o deliziartene.
Tracce organiche di tristezza.
Tra la perdita della dignità o il coraggio di averne.
Il passato è nei cassetti.
Rotola nella polvere.
O sventola come una bandiera.
Arso dall'aria satura.
E' bastato sfiorare il velluto consumato di un divano
per ubriacarmi di passato
e di tempo inverso.
E delle vite strofinateci contro.

Le dita del tempo tessono la trama. Chi è la tela? Chi l'ago e la sua cruna?
Si intrecciano vite. Come corsi d'acqua.
Rubano al cielo la sua immagine. Si fingono nuvole immobili.
Come statue fatte di acqua.
Il fiume riflette e scompone.
Ma tutto resta uguale. A sé. E a come noi lo vediamo.
Il mio tempo è segnato dal mio cuore.
E i miei polsi sono la sua cassa di risonanza.
"Legami i polsi con le tue mani".
Saranno le corde che avvolgeranno il mio respiro.
Non ho nulla di più autentico.

Ti parlai con un fiore.
Lo posai sulla mia mente
Lo lasciai dormirmi dentro.
E te lo donai.
Poi.
E' che con quel fiore dissi tante cose.
Forse troppe.
"Vieni da me".
Per esempio.
Rosso non è l'amore.
L'amore è bianco.
Come lama
che
dolcemente
fende
e staglia vuoti.
E per istanti non esisti.
E pioggia di cristalli di cielo.
Forse lacrime.
O aghi lenti.
Un bianco in fuga.
E' l'amore.
O la sua lurida idea.
Lacera.
Ma non lascia sangue.
Perduta nella pioggia.
Mi ritrovo.
Ancora solida.
Pulso.
Asciutto è il cuore.
Rossa è l'attesa ed i suoi bollenti ardori.
Di labbra tremule penzolanti ed appese al destino.
E il caso le disegna e poi cancella.
Ha cancellato.
Come la porpora immonda di ogni alba.
Spazza via la notte.
Rossa.
Schizza e non macchia.
Né pulisce.
Rossa poi la spina ed il suo percorso.
E il dolore.
A volte lilla.
Esasperato viola.
Io ti pensavo e pensavo.
In circoli di sogni.
Verde.
Ad occhi schiusi.
Dopo aver spaccato la luce.
E tra le gambe spigoli di orgasmi.
E ancora declivi.
Non so che significava.
Né posso capirlo.
Tu forse puoi?

Non portarmi mai nessun fiore.
Non vivrebbe.
Lo vedrei morire tra le mani.
Come tutto forse.
E piangerei la fine.
E forse è così.
Ma non voglio saperlo.
C'è qualcosa che non muore.
Mi ostino a pensarlo.
E nella mente un cerchio.
Aperto.

Prisma.
Perfetto nel suo cuore.
Come un dono.
Puro.
O perfettamente impuro.

E poi.
Ho solo parole
Ho solo parole. Non so che farne. Potrei spiegarvi. Intrecciarle in una ragione. Dargli una forma. Modellarle. Le annodo. Nodi di parole. Perché aderiscano le une contro le altre. Fino a toccarsi le ossa. E fremere. Come alcune parole sanno fare. E lasciarsi piovere di tutto il piacere e tutto il dolore del mondo. Come se in una sola goccia lo contenesse. Fino a farle soffocare. Sazie. Strappo ogni traccia di alito da quelle parole. Sono parole mute. Le spengo come lucciole nelle notti d'estate. E' così che devono. E vi racconto. Una delle tante storie. Rubando fiato a parole stuprate. Come nuvole morse e risucchiate. Una storia che poi scomparirà. Si dissolverà. Come le ali strappate di una farfalla. Sarò in ognuna di quelle parole ed in nessuna. O solo in una. E di me poi che resterà? Forse questo respiro che rotola sul mio cuscino. Rimbalza come l'immagine nello specchio. E' sempre troppo tardi. E mi soffia contro. Brucia il freddo sulle mie palpebre. Lievemente brucia. E non fa male. E nel nodo dei miei polsi abbracciati ritrovo il senso del calore. Come se l'immobilità fosse quella coperta tanto cercata. Riscalda. Come le tue mani sul mio collo. E non mi muovo per non spezzare l'attimo. E' così fragile quest'attimo. E io assecondo il tempo. E dondolo sui miei gomiti nell'aria perplessa. La realtà è un delirio. Ripido e morbido. Spegnila sulle mie labbra. Non ho cicatrici. Le cerco ma non le trovo. Le mie ferite sono fatte solo di ombra. E di un velo di solitudine. Ho solo parole. Tutte assolutamente concave. O sono mani protese?

E di solitudine e di aria strisciai le tempie.
E le mie mani.
Brucia ancora il freddo.
E io lo annuso mentre mi scivola nella mente.
Vaga nella mia mente astratta.
E non so fermarlo.

Mescolata
C'è troppo cielo in questa stanza. Stanotte. Ed è poi giorno. Mescolata. Mi addormento mescolata ai bordi del giorno. Di notte e di cielo. E dell'odore del grano. Del sole asciutto. Ricordo legato alla mia mente. E la notte non finisce mai. Me ne resta un pezzettino attorcigliato alle dita. Come una veretta. Una piccola spiga. Punge. Dolcemente. Una promessa incompiuta. Meravigliosamente imperfetta. Spaccata dalla possibilità di essere. Tutto quello che è. E che sarà. E poi mai. E respiro poco e tanto. Mai il giusto. Non mi doso. E negli eccessi mi scompongo. Per comprendermi. E poi mi ritraggo. Quasi provo spavento. E dagli occhi scivola al cuore. E poi alla mente. La paura la prova la mente. Il cuore solo latente dolore. C'è tanto di poco. L'odore del the e dell'arancia si mescolano a quello del silenzio. E della carta del mio libro. Non è insonnia. Ma sonno a strati. Fette di sonno scomposto e mischiato. Non tormento. Ma vento di me. Senza nome. Gli do tanti nomi. Ma sono sempre sbagliati. E non mi risponde. Non può. Il vento è muto.

Finestra chiusa. Sigillata come un cassetto. Da troppe parole buie. Una serratura di carne. Mi volto. Non posso capire. Mi volto e continuo a non capire. Io piccolo dettaglio, ai margini del racconto. Di una favola di sangue e di ghiaccio. Non posso e non voglio. E' strana l'assenza di attesa. Ti riempie di voglia di fame. Di un appetito che ti svuota. Ti ribalta l'animo come una calza indecisa. Anoressia di amore. Osservo il sogno di fiore. Dondolante sulla sua tela di petali e rugiada. Non conosco i suoi sogni di fiore. Mi abbandono e mi infilo in una visione. Ladra infiltrata nella rete di sogni. Oniricamente violenta. Come un salto. Indietro. Anche il tempo per un istante si è fermato. Tutto mi è apparso nella sua bellezza. E' questo il presente. E i miei sensi assentono. Il vento ha ancora un altro nome. E il mio qual è?